Confesso di non amare molto le navi da crociera. Quelle, per intenderci da 4000 cabine, dove c’è spazio per tutte le tentazioni terrene e, sopratutto, per quelle terrestri giacché il mare è un semplice optional che non interessa praticamente a nessuno: slot machines, teatri, addirittura palestre che imitano l’ambiente delle scalate alpine; e, ancora, passeggiate al coperto che costeggiano negozi, bar, botteghe, finti venditori ambulanti, persino automobili d’altri tempi.
Ecco perché, quando si è discusso di andare a visitare il mare più a Sud del mondo con una nave, sono rimasto inizialmente un po’ freddino.
La Stella Australis è discreta: solo un centinaio di cabine. Scopro anche con piacere che la nostra, quella che costa meno, è praticamente uguale a quelle definite di lusso che stanno al ponte superiore. Tenetelo presente.
Inoltre nessun negozio à la page ma solo un piccolo emporio che vende capi tecnici, come copripantaloni o cerate in caso di tempesta. Incomincio a ricredermi.
A cena il cameriere, senza alcuna apparente adulazione, mi chiama “caballero”. Il vino (che per ragioni di imparzialità turistico-commerciale è di marca cilena all’andata ed è argentino al ritorno) è eccellente, così come il cibo.
Il bar è sempre aperto e le consumazioni – senza limiti – sono comprese nel prezzo: non vi perdete il pisco-sour, aperitivo leggero e profumato tipico del Perù, ma che i cileni hanno fatto proprio con un colpo di mano, pardon di shaker.
Il primo mattino si parte per una spedizione in gommone, sulle tracce di Darwin e del Capitano Fitz Roy. Ci facciamo largo in un mare di ghiaccio fra piccoli iceberg che urtano silenziosamente i fianchi dell’imbarcazione e imbiancano la superficie del mare, e impressionanti sbuffi di vapore delle orche. Sulla riva, leoni marini pigramente addormentati e laggiù picchi montagnosi innevati che si tuffano nelle acque sotto un cielo di piombo che, data la latitudine, è definito “radioso”. Ci accompagna un addetto dell’Università di Santiago che parla un ottimo italiano con una sorprendente inflessione torinese. Con lui raccogliamo piantine di licheni destinate a sconosciute ricerche scientifiche che tuttavia nobilitano la nostra presenza in Patagonia. Affondiamo le scarpe in morbidissimi tappeti di torba rossiccia.
Non fa molto freddo, ma prima del nostro rientro a bordo veniamo ugualmente rincuorati con whisky e grappa . Io ne approffitto.
Il pomeriggio è dedicato all’escursione sul ghiacciaio Pia: un fronte spettacolare di oltre 200 metri di ghiaccio azzurro che si butta direttamente in mare con schiocchi, strepiti, fumi di blocchi che si fracassano uno contro l’altro.
C’è un pannello luminoso nel piccolo salone della nave, che indica la rotta che stiamo seguendo e il programma. Domani, ci informano, bisognerà alzarsi alle cinque perché sarà il grande giorno, la ragione principale che ci ha spinto sin qui: il passaggio di Capo Horn, il Grande Orco, il Capo dei Capi. E se il tempo lo consentirà, sbarcheremo addirittura su questo mitico isolotto.
E dire che domani compirò settant’anni. Che compleanno, ragazzi!
C’è molta emozione a bordo del gommone, e anche un po’ di tensione. Nessuno parla, pochissimi scattano foto, tutti sono concentrati su questo avvenimento unico, memorabile.
Sappiamo bene che le onde qui possono superare i 30 metri di altezza, come assicura Francis Chichester, e i venti – esaltati dalla barriera della Ande – possono scatenarsi fino a 100 nodi, fino a strappare l’ultimo brandello di vela, l’ultima speranza, mentre l’urlo degli elementi supera ogni limite umanamente tollerabile. “L’unico desiderio per l’uomo è quello di fuggire lontano”, riferiscono le cronache, e non si contano i casi di passeggeri di velieri letteralmente impazziti dal terrore.
Ebbene sì, io ho doppiato Capo Horn, proprio nel giorno del mio settantesimo compleanno. Ed ora posso essere chiamato anch’io Caphornier, come i bravi marinai che mi hanno preceduto; e posso anche andare al raduno annuale di Saint Malo, a raccontarci le nostre avventure con la pipa fra i denti. Poco importa che oggi, incredibilmente, il mare sia una tavola blu come nelle canzoni, che non spiri un filo di vento, che addirittura un timido raggio di sole sia riuscito – per qualche minuto – a frasi strada fra le nubi dense dei due Oceani.
Date le condizioni eccezionalmente favorevoli, ci hanno fatto scendere sul Capo dove vive una famigliola con un bimbo di una decina d’anni e un barboncino bianco. Pochi minuti, si capisce, perchè la tempesta può arrivare da un momento all’altro senza preavviso. Vietato togliersi il salvagente; bisogna essere agili e veloci nell’imbarcarsi a bordo del gommone; ma i marinai (quelli veri) ti aiutano, sono gentili e sanno il loro mestiere.
Al ritorno a bordo siamo tutti baldanzosi e brindiamo con generose dosi di pisco-sauer. Io abbraccio una signora olandese che anche lei festeggia il suo compleanno: per lei sono ottanta e trova che la sua età sia del tutto compatibile con le spericolate emozioni che ha vissuto oggi.
Ora la Stella Australis passa proprio al traverso del Capo ed io lo posso fissare diritto negli occhi: ha proprio le sembianze di un orco, con quella specie di enorme muso cattivo da cinghiale o da facocero che si tuffa nell’acqua all’incontro fra i due Oceani.
E, in effetti, il Vecchio Orco non dorme mai. Alla virata della nave per riprendere il nostro cammino, offriamo il fianco alle onde che ci erano sembrate così inoffensive e docili.
Il battello ondeggia, scricchiola, beccheggia, i bicchieri del bar, appesi capovolti per lo stelo, cozzano fra di loro producendo sinistri e disastrosi rumori di vetri infranti, le portelle degli armadietti si spalancano lasciando fuoriuscire tutto il contenuto, i nostri caphornier – con i calici ancora fra le mani – improvvisano loro malgrado pericolose corse all’indietro, alternate da insulsi slanci in avanti senza governo e senza rete, fino a quando tutti capiscono che la cosa migliore è sedersi lì, per terra, dove ci si trova.
E’ bastato un attimo per far scomparire i sorrisi di soddisfazione e di trionfo sui volti dei nostri eroi, sostituiti da sguardi atterriti e impotenti.
Il giorno dopo, riposo. Ma le emozioni non sono affatto finite: è in programma la visita al Viale dei Ghiacciai. Il Canale di Beagle era stato per Magellano un’alternativa al terribile Capo Horn, nella sua ricerca di un passaggio verso Ovest. E’ in queste acque che si tuffano, uno dopo l’altro, cinque fantastici ghiacciai scoperti da spedizioni alpinistiche europee nel corso dell’800.
Quelli della Stella Australis sono davvero bravi nel coordinare l’incrocio con ciascun ghiacciaio con la musica giusta e gli stuzzichini adeguati. Così il Ghiacciaio Francia è salutato con un suono di fisarmoniche, champagne e paté, il Germania con piccoli wüsterl e birra, l’Olanda con Kümmel e i classici formaggini rossi.
Fino a quando, accompagnati da un insano e patetico rigurgito di patriottismo, non sfiliamo davanti al più bello, al più maestoso, al più affascinante: l’orchestra intona Funiculì, funiculà, viene servita la pizza con un bicchiere di Chianti e il Ghiacciaio Italia appare trionfalmente davanti a noi.
Io, lo confesso, ho uno stupido groppo alla gola.
Nella notte siamo arrivati a Ushuaia, in Argentina, la città più a Sud del mondo dove, appunto, il mondo degli uomini finisce e inizia quello dei pinguini. La breve spedizione è terminata. Sbarchiamo alle otto del mattino e andiamo a dare un’occhiata al punto in cui si conclude l’autostrada (si fa per dire) più lunga del mondo: la mitica Panamericana che parte dall’Alaska, attraversa i due continenti americani sino a finire proprio lì, dopo quasi 18.000 chilometri.
Un’aquila di mare, appoggiata su un ramo a tre metri da noi, ci guarda sorniona e incuriosita mentre scattiamo la foto ricordo.
C’è ancora una piccola emozione: si sono dimenticati di timbrare i nostri passaporti in uscita dal Cile e in entrata in Argentina e noi siamo formalmente dei clandestini.
Non è facile spiegarsi in Spagnolo quando non lo si conosce e se si è un po’ agitati. Ma il funzionario di frontiera è un simpaticone, capisce la situazione e in segno di amicizia, appone sul passaporto un bel timbro ricordo della nostra avventura:
“Ushuaia, la ciudad màs austral del Mundo”.
Proprio così, ragazzi, siamo arrivati a la fin del mundo!